Le problematiche di inizio vita: la procreazione assistita

Tra i temi eticamente sensibili, una posizione preminente ha assunto, per gli imprevedibili progressi della scienza e per l’affacciarsi della ingegneria genetica sullo scenario della ricerca, quello della procreazione medicalmente assistita.

I diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione sono riferibili anche al concepito, come già la Corte costituzionale ebbe ad affermare con la sentenza n. 27 del 1975, che, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 546 cod.pen. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando la prosecuzione della gestazione implicasse danno o pericolo grave e non altrimenti evitabile per la salute della madre, medicalmente accertato, sottolineò il fondamento costituzionale della tutela del concepito, da rinvenire nel riconoscimento dei diritti garantiti dall’art. 2 della Costituzione, e, in particolare, del diritto alla vita. Ed uguale tutela discende dalla protezione della maternità (art. 31 Cost.) e dal diritto alla salute (art. 32 Cost.). E poiché sono diritti fondamentali anche il diritto alla vita e alla salute della gestante, il bilanciamento tra tali diritti fondamentali, allorchè siano entrambi posti in pericolo, è da ravvisare, secondo il giudice delle leggi, nella salvaguardia della vita e della salute della madre, pur se debba operarsi in modo da salvare, per quanto possibile, la vita del feto.

E dunque, il diritto alla vita del concepito non va inteso in modo assoluto, in quanto esso recede, nel bilanciamento, nei confronti del diritto non solo alla vita, ma anche alla salute, della madre, che, secondo l’espressione contenuta nella sentenza citata, è già persona, mentre il concepito, pur rientrando nel concetto di uomo, persona deve ancora diventare.

La prevalenza del diritto alla salute psicofisica della madre sulla vita del concepito è affermata nella predetta legge n. 194, che regola l’interruzione della gravidanza pur annunciando solennemente, all’art. 1, che lo Stato tutela la vita umana dall’inizio, dopo avere, peraltro, affermato che esso garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile.

L’art. 4 della legge prevede, entri i primi novanta giorni dall’inizio della gravidanza, la possibilità per la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza stessa, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o pisichica, in relazione al suo stato di salute, alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, di interrompere la gravidanza. Il successivo art. 6 prevede anche la interruzione dopo i primi novanta giorni, circondando tale ipotesi di maggiori cautele: le situazioni che consentono l’aborto sono collegate solo al grave pericolo per la vita della donna, ovvero all’accertamento di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, processi patologici da accettarsi da parte di un medico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento. L’art. 7 disciplina, poi, la ipotesi in cui esista la possibilità di vita autonoma del feto, limitando, in tale ipotesi, l’ammissibilità dell’aborto, a tutela della vita del concepito, al solo caso di grave pericolo per la vita della gestante, e comunque facendo obbligo al medico di adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del concepito.

Dunque, nella disciplina della interruzione della gravidanza, l’evidente favor nei confronti della salute della donna non esclude ogni rilievo al diritto alla vita del concepito, conformemente, del resto, alla ricordata solenne affermazione dell’art.1 della legge.

Quello del necessario bilanciamento dei valori e della prevalenza attribuita alla tutela della madre è un punto di estremo interesse per l’esame della legge n. 40 del 2004, nella quale punto centrale è lo status etico e giuridico del concepito fino alla sua nascita.

La predetta legge, che ha visto la luce in una congerie ideologica ed etico-culturale profondamente diversa da quella che aveva caratterizzato gli anni della legge sull’aborto, in un clima arroventato dalle polemiche ingenerate dallo sgomento di fronte agli sbalorditivi, ma, per certi versi, inquietanti progressi della ingegneria genetica, si propone in termini esattamente opposti alla legge n. 194 del 1978 relativa alla interruzione della gravidanza, avendo lo scopo di allargare le possibilità di procreazione. La legge, alla quale va ascritto l’indubbio merito di aver colmato un inaccettabile vuoto normativo nella materia della procreazione assistita, che aveva dato luogo a prassi discutibili quali quella dell’utero in affitto, delle mamme-nonne, etc., all’art. 1, comma 1, nella parte in cui dispone con enfasi che la legge stessa assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti nella procreazione assistita, <compreso il concepito>, reca la qualificazione del concepito come soggetto. Va, anzitutto chiarito che la norma presenta un contenuto meramente enunciativo, dovendosi ricavare la tutela di tutti i soggetti coinvolti dal complesso delle altre disposizioni della legge, come precisato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 48 del 2005, in occasione del giudizio di ammissibilità di uno dei referendum proposti per l’abrogazione di alcune norme della legge, e rimasti senza esito per mancato raggiungimento del quorum, il referendum che prevedeva la abrogazione di talune norme, tra le quali proprio l’art. 1.

Il concepito – rectius: l’embrione, visto che è la posizione di quest’ultimo che la intera legge disciplina attraverso gli obblighi ed i divieti che delimitano la procedura diretta alla procreazione- viene considerato come titolare di diritti fondamentali, e, anzitutto, del diritto alla vita, come opportunità di essere impiantato, optandosi per una concezione secondo la quale l’embrione è persona, piuttosto che progetto di vita umana. La citata sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 2005, relativa al giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo dell’intera legge n. 40, lo dichiara inammissibile, in quanto incidente su di una legge costituzionalmente necessaria, diretta a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, che coinvolge una pluralità di interessi di rilevanza costituzionale, che postulano quanto meno un bilanciamento che assicuri un minimo di tutela legislativa.

La opzione adottata dalla legge n. 40 tutela l’embrione, e il suo diritto alla propria integrità fisica ed identità genetica, nel bilanciamento con il diritto alla vita ed alla salute della madre (di cui è corollario, peraltro, l’interesse alla procreazione).

Le disposizioni dalle quali emerge tale prevalenza sono principalmente il divieto, peraltro incoercibile, di revoca del consenso al trasferimento dell’embrione una volta avvenuta la fecondazione dell’ovulo (art. 6, comma 3); l’obbligo di non produrre più di tre embrioni e di impiantarli contemporaneamente; il divieto di ricorrere alla procreazione assistita per le coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche trasmissibili al concepito; il divieto della diagnosi preimpianto (formalmente eliminato dalle nuove linee guida, ma, di fatto, per quanto si dirà tra poco, sopravvissuto).

Sul primo punto, è da segnalare la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo 10 aprile 2007, che ha ritenuto lecita la revoca del consenso all’impianto degli embrioni fino al momento del loro utilizzo, escludendo anche che gli embrioni in vitro abbiano un autonomo diritto alla tutela della loro vita.

Il limite numerico alla produzione di embrioni modifica profondamente la prassi fino all’approvazione della legge n. 40 invalsa di inseminare un certo numero di ovociti per poter impiantarne un numero pari a due o tre di buona qualità che offrissero concrete possibilità di riuscita del tentativo, congelando gli altri, da trasferire in cicli successivi ove non fosse iniziata la gravidanza.

L’art. 14, comma 2, della legge pone il divieto di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. Dunque, tutti gli embrioni di volta in volta creati a seguito della fecondazione in vitro devono essere impiantati, ed il trasferimento deve essere unico e contemporaneo, mentre non residua alcuna possibilità di selezionare embrioni – secondo una prassi seguita prima della entrata in vigore della legge n. 40 - che offrano maggiori possibilità di sviluppo né di conservare embrioni per un impianto successivo, qualora il primo tentativo non abbia sortito l’effetto sperato. Il divieto, al quale è strettamente correlato quello di crioconservazione e di soppressione degli embrioni, di cui all’art. 14, comma 1 – che prevede una sola deroga, allorché il trasferimento non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione, in tal caso, peraltro, consentendo l’art. 14, comma 3, la crioconservazione fino alla data del trasferimento, da realizzare appena possibile - determina la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione, e, quindi, l’aumento dei rischi da iperstimolazione ovarica e degli ulteriori rischi per la donna e per il feto in caso di gravidanze plurigemellari, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di gravidanze plurime di cui all’art. 14, comma 4, salvo, anche in questo caso, il ricorso all’aborto.

Ciò che, invece, la legge consente, all’at. 14, comma 8, è il prelievo di un maggior numero di ovociti, sì da evitare quel rischio da ripetuta stimolazione ormonale cui si è sopra accennato, e la fecondazione in vitro di tre di essi, con congelamento degli altri ovociti, da scongelare e fecondare solo in caso di necessità di un nuovo tentativo di impianto.Una siffatta tecnica, peraltro, presenta ulteriori rischi di insuccesso, essendo gli ovociti non fecondati particolarmente sensibili agli effetti dannosi del congelamento.

Si rivela, nella disciplina in esame, il limite alla tutela a tutto campo apprestata dalla legge n. 40 all’embrione. Ed infatti, anche nel caso di limitazione a soli tre del numero di embrioni prodotti, la legge ammette comunque che alcuni di essi possano disperdersi: la individuazione del numero massimo postula, appunto, un tale rischio, consentendo un affievolimento della tutela dell’embrione al fine di assicurare concrete aspettative di gravidanza, in conformità alla finalità proclamata della legge. E dunque, la tutela dell’embrione non è assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela della esigenza di procreazione.

Ancora, la prevalenza attribuita dalla legge n. 40 del 2004 alla vita dell’embrione emerge dal divieto di ricorrere alla procreazione assistita per le coppie non sterili, ma portatrici di patologie genetiche, desumibile dagli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge, essendo il ricorso alla procreazione assistita attraverso la fecondazione in vitro ed il trasferimento di embrioni (cd. fivet), consentito solo quando sia accertata la impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione, in coerenza con la finalità, annunciata all’art. 1, comma 1, di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità. Una opzione, questa, che si diversifica da quella adottata in altri Pesi europei, come la Francia e la Spagna, che ammettono alla procreazione medicalmente assistita anche coppie che rischino di trasmettere al nascituro patologie gravi, individuabili, ma, allo stato, non curabili, attraverso la diagnosi preimpianto.

La esigenza di tutela dell’embrione quale soggetto debole prevale, dunque, anche sulla tutela delle coppie che, responsabilmente, si pongono il problema di trasmettere tare genetiche ai figli, e che, a loro volta, devono qualificarsi soggetti deboli.

Le nuove linee guida, definite, a norma dell’art. 7 della legge n. 40 dal ministro della salute con proprio decreto per la indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, estendono il ricorso ad essa alle coppie per le quali, essendo l’uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV o HCV, l’elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce, di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l’adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità. Anche le nuove linee guida ignorano, però, la condizione dei portatori di malattie genetiche.

Il divieto della diagnosi genetica preimpianto – tecnicamente possibile attraverso la selezione degli embrioni prodotti in cui siano presenti gravi patologie genetiche e l’impianto dell’embrione sano - , si trova esplicitato nelle linee guida contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione assistita che, a norma dell’art. 7 della legge n. 40, furono emanate con decreto del ministro della salute all’indomani della entrata in vigore della legge stessa, non è stato eliminato dalle nuove linee guida di cui al d.m. 11 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 30 aprile 2008, che fa divieto delle sole diagnosi preimpianto a finalità eugenetica. Ciò in quanto esso è desumibile dalla legge, che è fonte di rango primario rispetto ad un atto di natura regolamentare.

Il divieto di cui si tratta viene motivato con riferimento alla finalità di impedire operazioni di eugenetica, tra l’altro oggi vietate dalla Carta di Nizza sui diritti fondamentali riconosciuti nell’Unione europea, nel duplice profilo dell’interesse ad avere un figlio sano ovvero in possesso di determinate caratteristiche somatiche.

Sul tema del divieto di diagnosi preimpianto la giurisprudenza ha assunto posizioni progressivamente più aperte verso una interpretazione della legge n. 40 che realizzi un contemperamento più equilibrato delle tutele dei diversi soggetti interessati. Ed infatti, in una delle prime applicazioni della legge, il Tribunale di Catania, chiamato a pronunciarsi su di un provvedimento di urgenza richiesto da una coppia di coniugi, portatori sani di una grave patologia genetica, che, avendo fatto ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, avevano invano chiesto di procedersi alla diagnosi genetica reimpianto, ha, con ordinanza del 3 maggio 2004, escluso il fondamento della richiesta, ed ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui non consente la diagnosi preimpianto, funzionale all’impianto dei soli embrioni sani.

In una vicenda del tutto analoga, il Tribunale di Cagliari ha, invece, una prima volta, con ordinanza del 16 luglio 2005, sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge n. 40 innanzi alla Corte costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32.

Il giudice delle leggi non è entrato, però, nel merito della vicenda, soffermandosi su di un profilo di rito che rendeva la questione, così come sollevata, manifestamente inammissibile, per avere il rimettente censurato una specifica disposizione concernente il divieto di diagnosi preimpianto desumibile, secondo la stessa ordinanza di rimessione, anche da altri articoli della stessa legge, tuttavia non impugnati, nonché dalla interpretazione dell’intero testo legislativo alla luce dei suoi criteri ispiratori.

A seguito di tale pronuncia, i ricorrenti hanno abbandonato il procedimento cautelare ed hanno intrapreso un giudizio ordinario, concluso con una sentenza, depositata il 22 settembre 2007, con la quale il Tribunale di Cagliari ha ritenuto che soggetti, in possesso dei requisiti previsti dalla legge per essere ammessi alla procreazione assistita, e che vi abbiano avuto accesso, possono chiedere di essere informati sulle condizioni di salute degli embrioni destinati all’impianto, e, a tale scopo, ottenere una diagnosi genetica che accerti la presenza di patologie. Il Tribunale ha effettuato una opzione interpretativa della normativa in questione che riconosce la praticabilità della procedura in questione quando sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare.

Ne discende, secondo il Tribunale di Cagliari, la illegittimità delle linee guida ministeriali del 22 luglio 2004, norma di rango secondario, nella parte in cui dispongono che ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14, comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale.

Alla stregua di tali motivazioni, il Tribunale cagliaritano ha accolto la domanda degli attori diretta alla condanna dei sanitari ospedalieri che avevano rifiutato la diagnosi a provvedere all’accertamento.

A conclusioni analoghe sono pervenuti, da un lato, con ordinanza del 18 dicembre 2007, emessa in sede cautelare, in una fattispecie simile alla prima, il Tribunale di Firenze, che ha disposto, peraltro, oltre alla effettuazione dell’accertamento diagnostico, con trasferimento dei soli embrioni sani o portatori sani, anche la crioconservazione degli ulteriori embrioni sino alla definizione dell’instaurando giudizio di merito.

Successivamente, il T.A.R. del Lazio, con sentenza n. 398 del 2008, ha dichiarato illegittime le linee guida nella parte in cui prevedevano il divieto di diagnosi preimpianto, rilevando che il d.m. 21 luglio 2004, che le contiene, emanato nell’esercizio del potere, conferito al ministro della salute dall’art. 7 della legge n. 40 del 2004, di dettare regole di alto contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale, ma non di intervenire sull’ambito oggettivo della disciplina della procreazione medicalmente assistita, non poteva limitare nel senso prospettato gli interventi diagnostici sull’embrione per le finalità previste dall’art. 13 della legge.

Contestualmente, il T.A.R. ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, secondo e terzo comma, della stessa legge n. 40 nella parte in cui impongono la creazione di un numero di embrioni da impiantare comunque non superiore a tre ed il contestuale impianto degli stessi. La questione pende innanzi alla Corte costituzionale.

Le evidenziate incongruenze della legge n. 40 dovrebbero indurre il legislatore ad adottare gli opportuni adattamenti. Si tratterebbe, sostanzialmente di consentire la utilizzazione delle potenzialità che il progresso scientifico offre senza in alcun modo indulgere ad un uso non eticamente ortodosso di tali opportunità.

Maria Rosaria San Giorgio